Il change management è morto. O comunque non sta benissimo

“Il mondo cambia. Noi dobbiamo cambiare con lui. Per questo abbiamo un grande progetto che ci porterà a grandi risultati. Il cambiamento è bello, però difficile, duro, impegnativo. Ma noi siamo forti e ce la faremo. Champagne per tutti!”

Questa è la retorica – ovviamente semplificata – che ha sentito fino alla nausea chi ha vissuto grossi cambiamenti in azienda: fusioni, ristrutturazioni, introduzione di nuove tecnologie o ERP, etc. Da almeno 20 anni le organizzazioni sanno che devono gestire questi cambiamenti, devono fare il cosiddetto “Change management” quando ci sono grosse novità all’orizzonte perché altrimenti il rischio è di trovare “resistenza al cambiamento”.

Sia chiaro, la resistenza al cambiamento è insita nell’uomo adulto con il suo bel set di abitudini consolidate. E allora via di assessment e analisi dei rischi, action plan e diagrammi di Gantt, presentazioni scoppiettanti e power point roboanti, formazioni tecniche ed esperienziali, campagne di comunicazione su tutte le pareti e su tutte le pagine intranet.

Non che tutto questo sia inutile (lo facciamo anche noi in Lenovys), ma non è assolutamente sufficiente a introdurre nuovi modi di lavorare, nuove procedure, nuove relazioni funzionali e gerarchiche all’interno di un’organizzazione attraversata – spesso investita, a volte “asfaltata” – da un cambiamento magari imposto dall’alto e con tempi compressi.

E comunque anche quegli strumenti vanno ricalibrati in funzione del loro effettivo impatto sulle abitudini delle persone. Sì, perché quegli strumenti (analisi dei rischi, formazione, comunicazione etc.) sono tutte strategie di modifica di un comportamento basate sugli stimoli antecedenti (o segnali), ossia stimoli che vengono prima dell’azione, che sono sufficienti solo a evocarla ma non a mantenerla nel tempo.

Strategie di motivazione al cambiamento parziali e non definitive

Permettete la metafora. La pubblicità di un biscotto, la promessa di un gusto piacevole e al contempo di mantenersi in linea, il posizionamento sullo scaffale, il campione olimpico come testimonial, il prezzo di lancio sono tutti stimoli antecedenti che possono farci cambiare marca di biscotto al supermercato.

Ma il condizionamento più forte avviene quando assaggiamo il biscotto e quel biscotto è buono ed è buono “subito”. E poi, dopo qualche ora, vorremmo anche digerirlo, senza che ci rimanga sullo stomaco. E poi, dopo qualche settimana, non ci deve fare ingrassare.

Il cambiamento deve “funzionare”. Di certo deve funzionare subito, deve darci una soddisfazione piccola ma immediata e percettibilmente evidente; altrimenti precipitano le probabilità che il comportamento si ripeta.

E poi, siccome noi uomini siamo animali dotati di linguaggio verbale e quindi capaci di legare gli effetti di lungo periodo alle nostre azioni odierne, dobbiamo vedere i frutti del cambiamento, della nostra nuova abitudine, del nostro sacrifico. Se questo legame, questa relazione causale, non è evidente, allora qualcuno ce la dovrà spiegare, in primis il nostro leader.

Naturalmente non abbiamo scoperto noi questo attraverso la nostra limitata esperienza, ma è l’evidenza della sperimentazione in analisi del comportamento e in neurologia che ce lo ha rivelato: il condizionamento è innanzitutto operante, ossia le associazioni che rendono le nostre azioni più probabili sono quelle che legano i nostri comportamenti a conseguenze che “funzionano” soprattutto nell’immediato, come la risata che facciamo quando leggiamo il messaggio idiota del nostro amico su WhatsApp. È quella risatina piccola e privata, quella gratificazione minuscola ma immediata, che non ci permette di resistere quando vediamo di sfuggita la notifica sullo smartphone. E non possiamo prescindere da questo quando vogliamo guidare il cambiamento, raccontandoci che l’uomo in nome di un ideale ben promosso “adotti” la nuova abitudine che però lo priva di tutte quelle gratificazioni che aveva con la vecchia abitudine.

Di qui la necessità di introdurre un vero e proprio Habit management quando si avviano i cambiamenti in azienda perché, lo abbiamo visto, non basta fare la pubblicità al cambiamento perché questo si mantenga.

Introdurre abitudini significa un rivoluzione culturale, fatta di piccoli passi e piccoli cambiamenti delle nostre azioni, che portano a un cambiamento di mentalità, un cambiamento del modo cui pensiamo. Come ci dimostrano anche i commenti dei protagonisti della case history Orogel raccolti in questo video, non è il pensiero preconcetto “cambiare è bello” che porta a trovare nuove soluzioni, ma – viceversa – è “costringersi” a fermarsi per trovare piccole soluzioni ai problemi quotidiani che poi mi farà dire “cambiare è bello”.

Cambiare le routine, non le loro gratificazioni

Allen Carr nel suo libro “E’ facile smettere di fumare se sai come farlo” – un best seller che ha guidato centinaia di migliaia di persone a smettere di fumare senza l’aiuto della farmacologia – guida il fumatore nel prendere consapevolezza dei condizionamenti di cui è vittima e delle “belle favole” che racconta a sé stesso per giustificare la sua necessità di fumare (es. “Fumo perché sono stressato e così mi rilasso”). Ma ogni essere umano fugge dallo stress alla ricerca del rilassamento, almeno fino a quando non sprofonda nella noia e allora lì lo stress se lo va a cercare. Il problema del fumatore è aver associato la sua routine “fumare” al rilassamento (rinforzatore positivo o, più semplicemente, gratificazione): un’associazione che prima di “prendere il vizio” non gli passava neanche per l’anticamera del cervello, come si diceva una volta o – come possiamo dire meglio oggi – nella via mesolimbica dove la nicotina stimola il rilascio di dopamina.
Come spiega Charles Duhigg ne “La dittatura delle abitudini” e come ci dicono le terapie cliniche di matrice comportamentale, per le persone è molto più dura cambiare la gratificazione piuttosto che il comportamento, l’azione con cui ottenerla.

È questo il passaggio che deve fare il Change Management: per rendere accettabile e poi mantenere un cambiamento – di routine organizzative o di software, non è poi così diverso – deve prima capire quali sono i meccanismi di gratificazione che agiscono nelle persone di quella data organizzazione, in quel dato momento storico.

A volte, il change manager dovrà dettagliare quei meccanismi di gratificazione da squadra a squadra, da individuo a individuo perché se – sempre per rimanere nella metafora – il rilassamento è un rinforzatore perseguito da quasi ogni essere umano, il gusto di biscotto che piace è diverso in base ai gusti che la cultura in cui siamo cresciuti ci ha plasmato.

Per provare a fare un esempio aziendale: con il mio vecchio e lento gestionale, che ha un’interfaccia brutta e Anni ’80 e una connessione instabile al server, riuscivo a ottenere un file Excel con tutte le anagrafiche dei clienti da modificare e poi ricaricare grazie ai comandi veloci da tastiera che ho scoperto da solo e ho ripetuto per anni. Oggi con il mio nuovo mega-turbo ERP posso fare delle previsioni di marginalità legate all’andamento del prezzo del barile aggiornato in tempo reale sul NYSE; ci sarebbe anche un’interfaccia agile per l’anagrafica clienti ma che se non sai dov’è impieghi una mattina a trovarla.

Ecco: se tutta la comunicazione, la formazione e via dicendo si sono orientate a promuovere le “nuove potenzialità” senza avermi rassicurato di come potrò ottenere le mie vecchie gratificazioni, allora sì che alla resistenza al cambiamento si sommerà la frustrazione e questa promuoverà l’apprendimento di fuga (“Mi tengo sul mio vecchio pc portatile il gestionale così mi faccio le mie estrazioni anche se non sono aggiornate all’ultimo cliente ma almeno ce le ho tutte”).

Il lavoro di chi prova a governare il cambiamento è allora intercettare le vecchie routine associate alle vecchie gratificazione e poi assicurarsi che le persone possano ottenere quelle stesse gratificazioni con le nuove routine. Altrimenti il cambiamento sarà meno probabile. Semplice, no?

Se ci si mette poi il fatto che il vintage e il retrogaming siano la moda di questi anni a ridosso del 2020, allora il nuovo software scontenterà tutti e lo slogan “si stava meglio quando si stava peggio” diventerà il ritornello alle macchinette del caffè. Questo destino non è inesorabile: basta affrontare la situazione esistente con gli strumenti giusti, come per esempio quelli illustrati da Lenovys nell’Executive Master riguardo al Lean Lifestyle.


Articolo a cura di:

Alessadro Valdina

Principal Lenovys

Consulente manageriale e analista del comportamento. Il suo compito principale è aiutare le organizzazioni a raggiungere gli obiettivi di sicurezza, qualità, produzione, servizio e vendite attraverso un miglioramento misurabile dei comportamenti individuali e di gruppo. Il suo campo di competenza abbraccia due macro aree: Performance Management e Training.
Docente del corso di Alta Formazione in Analisi del Comportamento e Tecniche di formazione e Project Manager di 2 progetti europei sullo sviluppo di tecnologie e-learning.

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