Stressati in azienda? Sì, quanto basta!

Se puntate un taser addosso a un cardiopatico di 70 anni, prossimo all’obesità e che non s’allena da 30 anni, e minacciate di elettrificarlo se non corre i 100 metri in meno di 30”, lo stressate a tal punto da fargli venire un infarto prima di partire.
Se faceste lo stesso con Usain Bolt, quello scrollerebbe le spalle, e  senza produrre un goccio di adrenalina va, torna e vi aiuta a rimettere il taser nella fondina.

Iniziamo questo articolo con un’iperbole per chiarire  un concetto importantissimo: lo stress è l’attivazione di una risposta fisiologica alle richieste dell’ambiente in relazione alle capacità dell’individuo e non in assoluto. E visto che in Italia  il 40% dei lavoratori  si dichiara stressato e vuole cambiare lavoro è il caso di capire che cosa significa stress e che cosa possiamo fare per aumentare le performance e la retention dei talenti.

Un rinforzatore negativo – tipicamente una minaccia, una pressione, una richiesta – risulta essere una condizione di disagio per qualcuno, ma non è detto che lo sia altrettanto per altri. La risposta “stress” si attiva in base a una percezione individuale – e quindi soggettiva – delle proprie risorse percepite che possono far uscire dal disagio che si prova.
Lo stimolo diventa stressogeno in relazione a quello che tu sai, o puoi, fare in quel momento.

Dal punto di vista evolutivo, lo stress – inteso come risposta fisiologica – è un retaggio della nostra “recente” condizione di preda-e-predatore nel mondo preistorico: il leone o la tigre ci minacciava e se noi, homo sapiens, non avessimo avuto un sistema per sottrarre energia a processi procrastinabili (es. la digestione) per concentrarla nei muscoli e difenderci o fuggire, saremmo morti prima di poter passare i caratteri ai nostri figli che ancora dovevano nascere.
La natura ha impiegato decine di millenni per selezionare questa risposta, tanto involontaria quanto necessaria. Ma il mondo, oggi, cambia a velocità esponenzialmente superiore a quella con cui può cambiare la nostra fisiologia, che non è aggiornabile come un firewall o un’app.

Viviamo in un mondo iper-razionale, iper-codificato, iper-regolato, iper-burocratico, con un cervello “selezionato” da un ambiente selvaggio e competitivo.
Il nostro compito è saper sfruttare questi meccanismi senza esserne vittime e senza essere carnefici dei nostri collaboratori.

Quindi lo stress può essere “buono” o “cattivo”, ossia capace di produrre una risposta funzionale alle richieste dell’ambiente, come per esempio l’eccitazione che ci prende e ci spinge in una gara a cui arriviamo preparati (eu-stress); o disfunzionale, come il panico che fa far scena muta al concorrente bi-laureato di fronte alla domanda elementare del conduttore del quiz serale (dis-stress).
Noi dobbiamo capire quindi come attivarci e attivare i nostri collaboratori “eustressandoli” per bene senza “distressarli”.

Un equilibrio tra due poli: noia e stress

La medicina ha ampiamente dimostrato le conseguenze di uno stato cronico di stress sul nostro corpo, ma la stessa medicina ha anche visto che l’inattività e la vita sedentaria portano a danni altrettanto gravi. Se volessimo semplificare all’osso i nostri schemi di motivazione, ossia quello che ci muove, potremmo dire di oscillare tra 2 poli:

  • l’eccitazione, in tutte le sue forme  – da quella sensuale a quella intellettuale, legata all’interazione verbale con persone, immagini, testi.
  • il rilassamento, anche qui inteso in tutte le sue forme, da quello fisico – come l’appagamento dell’appetito e il sonno – a quello relazionale, quando cerchiamo di stare da soli o di “fare altro” per “liberare la mente”.

A livello di risposte innate (e non apprese), uno dei caratteri che differenzia noi umani (e alcuni primati)  dagli altri mammiferi, è questo: noi ci annoiamo più facilmente, cadiamo in uno stato di eccessivo rilassamento che ci muove a ricercare l’eccitazione, in qualsiasi sua forma  e chi si occupa di evoluzione ritiene che questo carattere innato, abbia contribuito a “spingerci” più in là.
Ma anche l’assenza totale di richieste dall’ambiente è fonte, a sua volta, di conseguenze nocive per il corpo umano, come depressione, ansia o attacchi di rabbia. Ma senza voler entrare nel patologico, pensiamo solo a quanti caffè prendiamo per eccitarci a fronte di giornate noiose alla scrivania o di riunioni infinite con speaker di dubbia abilità oratoria…

E questo cosa ha a che fare con le performance sul lavoro?  Per sviluppare noi stessi e i membri di un team, e per ottenere da loro il massimo, dobbiamo fare due cose apparentemente contraddittorie: stimolarli senza stressarli.

Come eu-stressare i tuoi collaboratori

Stimolarli nella misura in cui dobbiamo dare loro obiettivi sfidanti, ossia superiori a quello che hanno dimostrato fino a oggi: il che significa perseguire gli stessi risultati, ma con un quid percento di risorse in meno (tempo, budget, collaboratori, etc.) o, a parità di risorse, chiedergli un incremento del quid percento in più.
Quant’è quel quid percento? Questo dipende dalla persona che avete davanti: quando assegniamo nuovi e più sfidanti obiettivi ai collaboratori dobbiamo monitorare il tasso di successo e il benessere della persona.
Se  il tasso di successo scende sotto l’80% di paretiana memoria, significa che li stiamo demotivando mettendoli troppo spesso in condizioni di fallire. Rischiamo di perderli, rischiamo di dis-stressarli perché gli stiamo sottraendo la gratificazione insita nella sfida, “riuscire”.
E se stessero raggiungendo i loro obiettivi in più dell’80% dei casi, ma per farlo iniziassero a perdere l’entusiasmo e la gratificazione insite nella stessa sfida che gli abbiamo assegnato? Allora sono i primi segni di un possibile “burnout” che può portare poi a frustrazione e disinteresse totale verso il proprio lavoro.

Monitorare la risposta emozionale dei collaboratori è fondamentale perché ci permetterà di fare 2 cose:

  • agire sull’energia, incoraggiando e rinforzando positivamente ogni loro sforzo – ogni singolo piccolo comportamento – che porterà al risultato finale con le sue gratificazione connesse, ma troppo lontane nel tempo per dare loro energia oggi;
  • offrire il nostro aiuto ai collaboratori per colmare il loro gap di risorse prima che sia troppo tardi, prima che si “distressino”, appunto.

Abbiamo usato la parola “burnout” ma lo facciamo con cautela: sappiamo che descrive una sindrome molto precisa e spesso legata alle professioni sanitarie o educative, quando il professionista è esposto allo stimolo stressogeno più potente: un altro essere umano in stato di sofferenza e richiesta. Però, ci sono tanti lavori o mansioni in cui il contatto col cliente interno o esterno è frequente ed esigente (e noi che facciamo i consulenti ne sappiamo qualcosa): allora, è necessario guardare i “segnali deboli” di quei colleghi “bravi che si impegnano” ma che rischiano di bruciarsi perché ci siamo dimenticati che sono umani, il cui comportamento ha come carburante l’energia emozionale e mentale, ossia i rinforzi sociali (“pacche sulle spalle”) e quelli interiori che ci diamo da soli per avere fatto il nostro compito o avere perseguito una missione degna della nostra vita.

 

Si tratta di alzare l’asticella un po’ più in alto, poco alla volta, senza che se ne accorgano: perché lo sappiamo che l’uomo si abitua a tutto anche allo stress, ma in caso di eu-stress la sua risposta è funzionale e provoca risultati positivi; in caso di distress, ansia e aggressività prenderanno il sopravvento e a quel punto la fuga sarà inevitabile e non ci sarà alcuna employer branding strategy in grado di arginarla.

Per evitare di arrivare al punto di rottura è indispensabile che aziende e manager sappiano sviluppare le abilità necessarie a guidare le persone verso mete sempre più ambiziose, e soprattutto diventare capaci di farle evolvere in meglio. L’Executive Master Lean Lifestyle® è un percorso formativo, ad alto impatto, rivolto ai manager che vogliono migliorare la loro capacità di guida e imparare a valorizzare al meglio le risorse umane disponibili.


Articolo a cura di:

Alessandro Valdina

Principal Lenovys

Consulente manageriale e analista del comportamento. Il suo compito principale è aiutare le organizzazioni a raggiungere gli obiettivi di sicurezza, qualità, produzione, servizio e vendite attraverso un miglioramento misurabile dei comportamenti individuali e di gruppo. Il suo campo di competenza abbraccia due macro aree: Performance Management e Training.
Docente del corso di Alta Formazione in Analisi del Comportamento e Tecniche di formazione e Project Manager di 2 progetti europei sullo sviluppo di tecnologie e-learning.

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