Rendiamo l’home working anche smart

Il Coronavirus ci ha obbligato allo smartworking, ma spesso di smart ha poco e dovremmo chiamarlo con più umiltà telelavoro (nella speranza che diventi tele-valore).

In tutto il mondo lo chiamano home working, ma noi abbiamo voluto fare questo salto quantico passando da un giorno all’altro da “tutti in ufficio e sempre” al “lavoro furbo”. Molte organizzazioni con cui interagiamo ammettono di non essere ancora pronte allo smart working di massa, non tanto dal punto di vista tecnologico quanto da quello ergonomico individuale e da quello manageriale.

Più che un’opportunità, al momento è un disagio

In rete e sui social sono esplosi consigli su come lavorare da remoto. L’abbiamo fatto anche noi andando a pescare dal nostro repertorio, senza inventarci nulla, perché si tratta di applicare principi chiave della nostra metodologia Lean Lifestyle®.

Personalmente, ho letto esperienze molto interessanti e ci ho visto la volontà di aiutare gli altri in questi momenti difficili, di passare il messaggio “trasformiamo il problema in opportunità”, secondo il noto modo di dire di chi si occupa di cambiamento. L’auspicio è condivisibile, ma lo smart working, nel momento attuale, è più una necessità ed è vissuto dalla maggior parte delle persone più come “un disagio, ma gestibile”, secondo le opinioni raccolte da un sondaggio di SWG  – condotto tra l’11 e il 13 marzo, appena dopo che il governo ha proclamato zona rossa tutto il territorio italiano – su un campione di 800 lavoratori a distanza.

Benessere e Smart working (programmato e non improvvisato): la relazione c’è!

Provando a uscire dal mondo delle opinioni ed entrando in quello dei risultati, la ricerca più interessante realizzata nel contesto italiano è l’esperimento condotto dal Centro Dondena dell’Università Bocconi, all’interno progetto europeo Elena (Experimenting flexible Labour tools for Enterprises by eNgaging men And women).
Si tratta di un disegno sperimentale randomizzato e controllato su 300 dipendenti di una grande società italiana che non aveva mai utilizzato prima forme di flessibilità: lo studio ha messo confronto due gruppi di lavoro omogenei – estratti in modo casuale – uno dei quali “trattato” per 9 mesi consecutivi con 1 giorno di lavoro a settimana fuori sede e la totale flessibilità di orario, misurandone prima e dopo gli impatti su produttività e benessere dei lavoratori.

Il benessere è aumentato di certo e in modo significativo rispetto a chi non ha sperimentato la flessibilità (si guardi il grafico). E alla produttività che cosa è successo? Pur non avendo accesso ai dati grezzi dell’esperimento, che non dice né l’industry né le modalità esatte di misurazione della produttività, il grafico pubblicato sembra dare un’evidenza lampante, anche se non sottolineata dai ricercatori: il balzo di produttività dei 2 gruppi è simultaneo!

In una scala da 1 a 5, entrambi partono sotto il 2,8 ed entrambi finiscono intorno al 3,1-3,2.
Viene da chiedersi: cosa è successo che possa aver determinato in entrambi i gruppi un aumento di produttività del 10%? È stata introdotta una nuova tecnologia? Sono stati introdotti nuovi processi che hanno eliminato gli sprechi? C’è stato un picco della domanda che li ha saturati?

I ricercatori ci dicono che tra i 2 gruppi non ci sono differenze significative nella produttività, ma nel corso dei 9 mesi sì, mi viene da dire. Il sospetto, allora, è che a fare la differenza sia stato la misurazione della produttività in sé e l’attenzione conseguente data ai collaboratori. E questo non farebbe che ribadire un’evidenza già conosciuta in psicologia come effetto osservatore (vedi Hawthorne Effect).
D’altronde, “ottieni ciò che misuri”, dice l’adagio manageriale del miglioramento continuo e questo avrà avuto un impatto anche nella ricerca sullo smart working.

Queste letture, e le perplessità che abbiamo raccolto in questi giorni dai manager alle prese con la gestione della propria squadra, portano a pensare che siamo lontani da una gestione ottimale della performance per i 16 milioni di lavoratori da ufficio.

Risultati-Presidio-Feedback

Tra i consigli che girano in rete, e che diamo anche noi di Lenovys, sono in molti che ci ricordano ora quanto sia importante gestire le persone per obiettivi: il problema è tuttavia definire esattamente che cos’è un obiettivo. “Mi sono dato l’obiettivo di trovare un nuovo strumento di rendicontazione delle spese per i dipendenti”, ho sentito dire da un HR in azienda. È forse un obiettivo questo? L’obiettivo va espresso in numeri, ma per avere i numeri bisogna avere degli indicatori che devono essere alimentati con una raccolta dati periodica. E poi, per far sì che per le persone “reagiscano” di fronte ai numeri, vanno costruite routine organizzative per fare vivere queste responsabilità e declinare gli obiettivi a livello individuale, con relativi processi di performance review e performance feedback. Tutte esortazioni che probabilmente conoscete già, ma se non ci si è dati il tempo di metterle a terra, oggi si avrà qualche difficoltà in più a gestire la prestazione dei collaboratori in remoto, soprattutto se sono stati abituati al micro-management e a una supervisione stretta. Non è una questione di fiducia verso i collaboratori, ma di abitudine e capacità manageriale: affidare risultati-presidiare-dare feedback, affidare risultati-presidiare-dare feedback, etc.

Quindi dobbiamo sfruttare questo momento storico per obbligarci a farlo, anche per piccoli passi:

incontriamoci virtualmente tutte le mattine, diamo scadenze, affidiamo compiti in modo preciso, rivediamoli con puntualità e diamo feedback (anche pubblico) e – magari – iniziamo a prendere nota delle valutazioni date al lavoro altrui per costruire poi una base più oggettiva della nostra performance review.

Iniziamo a coinvolgere le persone operative

Quando ritoccheremo la nostra strategia o i nostri processi produttivi, dovremo coinvolgere le persone operative: abbiamo bisogno delle loro idee e del loro consenso per rendere i cambiamenti più efficaci e più fluidi.

Noi come Lenovys aiutiamo numerose aziende a definire e – soprattutto ad attuare – la loro strategia a 3-5 anni: con loro proviamo a scomporre gli obiettivi strategici in progetti con orizzonte annuale e insistiamo affinché quei progetti siano affidati a persone senza per forza un ruolo manageriale in organigramma, persone che non abbiano una certificazione PMP®, ma che possano imparare facendo, con l’aiuto di una guida: in Giappone lo chiamano Hoshin Kanri, nel mondo anglosassone Strategy Deployment.
Nel metodo è insita la capacità di ottenere consenso sugli obiettivi negoziandoli con i responsabili di progetto, senza calare nulla dall’alto, ma con una “trattativa” tra diversi livelli gerarchici e diverse funzioni, avendo come unico faro la realizzazione della missione o visione, e non dell’interesse particolare.

In questi giorni, con quegli stessi clienti stiamo cercando di capire quali di quei progetti siano ancora attuali, quali siano capaci di raggiungere quegli obiettivi strategici nel prossimo futuro, visto che il futuro non è più quello che potevamo immaginare poco tempo fa: ci sono business fondati sugli assembramenti che cambieranno il modo di attrarre e gestire i clienti (pensiamo solo agli eventi sportivi e culturali), ma ancora non sappiamo come; ci sono fabbriche in cui le persone lavorano “gomito a gomito” e per ripartire dovranno aumentare le distanze tra gli operatori: potrebbero dover imparare a fare il lavoro di 2 postazioni, potrebbero dover introdurre i turni per ridurre l’afflusso di persone, potrebbero dovere instaurare abitudini di igiene di cui non avevano mai sentito il bisogno. Non sappiamo ancora come il Covid-19 ci permetterà di vivereanche se – guardando al caso cinese e a quello che dicono gli epidemiologi – siamo quasi certi che sarà un ritorno alla normalità lungo e progressivo, con degli stop-and-go sempre in agguato.

Così come ci ha insegnato la nostra esperienza in tempi ordinari, non crediamo che il solo management di un’organizzazione abbia le forze per raccogliere tutte le informazioni, processarle e produrre un piano strategico “multi-scenario”: in questo momento crediamo che il management debba avere il coraggio di ascoltare analisi basate su dati, ma fatte da altri e magari anche in contrasto con la propria percezione; scegliere a quali 2-3 scenari probabili prepararsi, per poi delegare i relativi piani di intervento ai propri collaboratori, rivederli con loro e pungolarli sui rischi possibili sapendo di dovere apprezzare il loro sforzo anche se poi quel piano non sarà attuato perché non dipenderà da loro, né da noi, in quale scenario giocheremo la partita. In questo modo, quando si riuscirà a capire il nostro nuovo stile di vita, l’organizzazione sarà pronta a cogliere le nuove opportunità (o a infilarsi nei nuovi spiragli).

“Ma non sa fare una col bicchiere, come faccio ad affidargli un progetto?”, è il timore che alcuni direttori ci confessano, quando li sfidiamo ad affidare dei compiti a persone che magari non godono della loro stima.
Ci vuole coraggio a esporsi al rischio che qualcuno sbagli o che qualcuno non abbia le nostre stesse idee: come leader, siamo pronti a gestire il dissenso? Come manager, siamo pronti a delegare? O siamo più affezionati all’equazione “la dirigenza dà la direzione”?

Guidiamo l’apprendimento dei nostri collaboratori

Quali competenze e abilità sono necessarie, ora nell’emergenza, e quali lo saranno nel post Covid-19? La domanda non vale solo per i nostri collaboratori, ma anche per noi: un lean leader dovrebbe avere chiaro in ogni momento quali sono i divari che allontanano il suo collaboratore dall’eccellenza o, se non ce ne fossero, dovrebbe avere la visione di quali competenze saranno necessarie per affrontare le prossime sfide.

Di conseguenza, va re-impostato per tutti i collaboratori un piano di formazione individuale.

Per lavorare smart, devi diventare smart: smart nella delega, nella concentrazione, nel prendere decisioni, nella gestione del tuo tempo e della squadra, smart nella semplificazione, smart nell’innovazione e nel suo governo.

Potreste cominciare ad allenarvi da subito e magari col nostro aiuto: Lenovys aderisce alla campagna di solidarietà digitale e offre accesso alla sua Smart Academy per 1 mese in modo gratuito.


Articolo a cura di:

Alessandro Valdina

Principal Lenovys

Consulente manageriale e analista del comportamento. Il suo compito principale è aiutare le organizzazioni a raggiungere gli obiettivi di sicurezza, qualità, produzione, servizio e vendite attraverso un miglioramento misurabile dei comportamenti individuali e di gruppo. Il suo campo di competenza abbraccia due macro aree: Performance Management e Training.
Docente del corso di Alta Formazione in Analisi del Comportamento e Tecniche di formazione e Project Manager di 2 progetti europei sullo sviluppo di tecnologie e-learning.

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