Cultura del feedback: una scelta strategica di lungo periodo

400 anni fa Toyotomi Hideyoshi (17 Marzo 1537 – 18 Settembre 1598), unificatore del Giappone, perdeva la sua campagna di invasione della Corea per feedback troppo timidi dai suoi messaggeri: non avevano coraggio di dirgli che stava avendo la peggio nell’invasione. Quando si è accorto della disfatta, era ormai tardi per rimediare.

La cultura giapponese è una cultura riflessiva, caratterizzata da grande dedizione, sincerità e rispetto delle gerarchie. E tuttavia, anche per loro, a volte è difficile applicare i comportamenti maggiormente funzionali al contesto in cui si trovano. Perché questo succede anche ai giapponesi?
Perché sono uomini anche loro, e le emozioni guidano scelte e comportamenti, come accade per tutti.

Il ruolo delle emozioni (e il feedback come contromisura)

Le emozioni ci inducono a dare molto più peso agli effetti immediati delle nostre azioni (sia positive che negative) lasciando in secondo piano tutto ciò che è lontano o più incerto nel tempo.
È emotivamente più accattivante divorare quel bignè posato sul tavolo, anche se la ragione potrebbe farti notare che – a lungo termine – gli effetti sono indesiderati e non ne hai davvero bisogno!
In altre parole, è molto più facile dire subito “sì” o “nascondere i problemi” piuttosto che sforzarsi nell’immediato per risolverli.

Come sfuggire a questa dinamica? Serve un aiuto esterno (che pian piano potrà diventare una vocina interiore, una volta consolidato): il feedback.
Il feedback, un riscontro neutro sul nostro comportamento, infatti, può mitigare questo effetto di distorsione: vediamola come una porta sul futuro, in grado di avvicinare a conseguenze lontane, o incerte; descrive e configura possibili conseguenze che altrimenti potremmo ignorare, inquadrandole in un vissuto più tangibile, e vicino a noi.

Avremmo comunque mangiato quel bignè se qualcuno ci avesse ricordato i rischi a medio termine, bilanciando le emozioni immediate che ci aspettiamo dal primo morso? Sicuramente si aggiunge un contrappeso!

Un feedback, quindi, è uno strumento che ci consente di accorciare le distanze tra le azioni e le loro conseguenze, migliorando la nostra lucidità di scelta (che comunque resta a noi).

Cultura del feedback: una scelta strategica di lungo periodo

Il feedback è lo strumento e la metodologia prediletta del capo mentore: è un investimento che ci fa guardare avanti, che porta all’attenzione vittorie e/o sconfitte future e le mette a portata di chi sta di fronte. È un atteggiamento che richiede uno sforzo di attenzione verso le azioni compiute e le loro conseguenze, ma rappresenta un guadagno indiretto verso gli obiettivi che riusciremo a raggiungere grazie all’analisi obiettiva dei comportamenti.

Nella cultura giapponese, il capo è al servizio dell’allievo: è un’inversione del punto di vista, che mette molta più responsabilità sull’insegnante piuttosto che sull’allievo.
Il feedback è il comportamento principe di questo approccio educativo di crescita del collaboratore, e di modifica della performance.

Chi abbraccia la cultura del feedback, chi accetta il modello del capo mentore, accetta di affrontare un costo in prima persona per offrire un vantaggio a chi ha di fronte.
Il costo che il mentore paga è, in primis, un costo in termini di tempo: tempo per dare un feedback, ma anche il tempo necessario all’allievo affinché i cambiamenti diventino un nuovo abito comportamentale.
Indirettamente il vantaggio tornerà indietro perché se l’allievo cresce, anche il mentore può crescere.

Il feedback è una prassi fortemente basata sul pensiero strategico, che assume di dover investire prima, per raccogliere poi.
Nota bene: a raccogliere non sarà certo solo l’allievo, in quanto il capo mentore sa di beneficiare direttamente dall’autonomia guadagnata dai suoi collaboratori!

5 Errori che possono far fallire la strategia del feedback

Scegliere di adottare la strategia del feedback significa sacrificare la velocità di attuazione, e investire piuttosto, sulla stabilità della performance e sull’instaurazione di una cultura incentivante di gruppo (aziendale, lavorativa, familiare, etc..). È una strategia contro intuiva, facile da dirsi, ma poco da farsi.

I tempi del feedback sono certamente più lenti di altre strategie basate su ricompense tangibili, approcci coercitivi o premialità dirette.
La premialità diretta, per esempio, può apparire una strategia più immediata, i cui effetti si possono misurare con maggiore velocità e precisione, ma è una tattica meno duratura e, soprattutto, meno sostenibile nel tempo (agisco per il premio, non perché scelgo di migliorare in seguito a un riscontro oggettivo, che mi mostra la via razionalmente migliore)

Ecco 5 aspetti che se non interpretati bene rischiano di portare fuori strada, e rendono più concreto il rischio di far abbandonare in fretta il percorso di crescita e sviluppo delle persone attraverso il feedback:

1. Unilateralità

Ritenere che il feedback sia un canale unidirezionale è un errore molto facile in cui incorrere. Invece, entrambe le parti devono diventare reciprocamente una fonte di feedback continui. L’autorevolezza della fonte, infatti, deriva dalla capacità di mettersi sullo stesso piano per imparare insieme qualcosa.

Imparo più volentieri da chi è disposto, a sua volta, a crescere insieme a me.
Cercare la reciprocità è un modo per imparare insieme più velocemente.

2. Sbilanciamento correttivo

Percepire il feedback solo come strategia correttiva e agire solo con questo unico intento. Il capo mentore deve essere una fonte rilevante, e per diventarlo, l’attività di mentore non deve essere associata sempre e solo a punizioni e correzioni. Altrimenti risulterà fastidioso e non sarà facile che si impari da lui.

Paradossalmente, è meglio essere sbilanciati sul versante del feedback positivo, così che quando ci saranno da offrire feedback correttivi, questi saranno accettati di buon grado, e condurranno più facilmente a un cambiamento comportamentale.

3. Latenza

Non possiamo assumere che il feedback funzioni a prescindere, per il fatto stesso che ci siamo impegnati a darlo. Un riscontro tardivo, per esempio, ha meno chance di avere effetto! Una regola importante è che più siamo tempestivi, più siamo efficaci.
“L’ottimo è nemico del fare ” è una massima valida anche nei processi di apprendimento guidati dal feedback, dove i secondi fanno la differenza.

Meglio parlare al collaboratore MENTRE sta agendo, senza aspettare di parlargli meglio, ma a distanza di tempo (minuti o ore).
Aspettare per voler fare meglio è un comportamento controproducente in questo contesto di crescita dei collaboratori.

4. Confusione con gratificazioni / punizioni

Gratificazione e/o punizione non sono essi stessi il feedback.
Il feedback è piuttosto il racconto neutro che facciamo al collaboratore, e che rende evidente a lui per primo il suo agire. Sottolinea quindi, in maniera più oggettiva possibile, ciò che sta accadendo. Sottolinea gli elementi di merito e aiuta a capire quali comportamenti ripetere per aumentare e migliorare la performance.

Non deve essere confuso con il buonismo sterile (banali complimenti reiterati), o con le “urlatacce”.

La routine del feedback può prescindere da complimenti e punizioni, e se si riduce esclusivamente a quello cade in errore.

5. Presunzione di effetto istantaneo

Sappi che quando usi il feedback e non vedi immediatamente il cambiamento che vuoi ottenere nell’altro, non devi credere che stai mancando di efficacia. Forse stai comunque lavorando bene, ma è necessario lasciare la possibilità e il tempo, a chi hai di fronte, per scegliere di cambiare.
In caso di cambiamenti non immediati, desistere subito è un grosso errore che ci fa negare un effetto in fieri. Gli effetti non sono immediati, ed è necessario attendere.

Scegliere di cambiare sarà un processo più lungo, ma più duraturo che essere costretti a cambiare (in questo secondo contesto, gli effetti sono sì più immediati ma meno duraturi, e svaniscono non appena la coercizione viene meno).

3 Suggerimenti per una strategia efficace del feedback

Dare feedback, sperimentare e non attendere di essere perfetti prima di lasciarsi andare a dare feedback, creare una routine che consenta di imparare a non  perdere nessuna occasione per dar feedback.
Il bravo manager non è colui che dà buoni feedback, ma chi sa crearsi occasioni – non perderle e non sprecarle – per dare feedback e far crescere i collaboratori.
“Pochi ma buoni” è uno slogan che non si addice a questa strategia di crescita delle persone. Meglio tanti, anche maldestri, per sviluppare una abitudine e una cultura del feedback (da dare e da ricevere).

Dare feedback che siano collegati, dal punto di vista di chi li riceve, a un cambiamento realizzabile. Si stressa, così, l’abilità di chi dà feedback nel trovare evidenze. L’abilità del mentore è la capacità di individuare piccole mete intermedie da raggiungere, tappe verso il traguardo finale (shaping, o modellazione graduale del comportamento).

Routine organizzative. Far diventare il feedback un comportamento aziendale consolidato è importante per ottenere un risultato. La cultura si costruirà gradualmente, grazie ad alcune routine organizzative, con processi che inizialmente dettano questa regola in maniera strutturata, in modo che le persone si conformino più rapidamente. Non basta soltanto dire di volere più feedback, ma è necessario spingere le persone a cominciare a dar feedback, fino a che questo comportamento diventa “appreso, interiorizzato, innato.”


Articolo a cura di:

Morgan Aleotti

Manager Lenovys

Consulente manageriale e analista del comportamento, ha maturato esperienza sul campo presso clienti multinazionali, interessati a raggiungere risultati di produttività, qualità, vendite e sicurezza attraverso l’analisi e diffusione di comportamenti orientati agli obiettivi. Ha lavorato in particolare con aziende del settore metalmeccanico, alimentare, chimico, sanitario, siderurgico e dei servizi. Docente di Analisi del Comportamento, ha all'attivo sei pubblicazioni sul tema.

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