Lenovys Focus
21/02/2025
Tempo di lettura: 11 minuti, 52 secondi

Gestire il cambiamento in azienda: 5 passi per un’implementazione di successo

Introdurre innovazione significa affrontare resistenze e abitudini radicate, e solo un approccio realistico e strutturato può garantire un impatto duraturo.
Il change management non può essere solo una narrazione ottimistica sui benefici del nuovo, ma deve partire dalla consapevolezza condivisa che il cambiamento è necessario.

Senza azioni concrete, le organizzazioni rischiano di perdere credibilità agli occhi dei collaboratori, rendendo il cambiamento una promessa vuota.

Tutti vogliamo il cambiamento, ma in realtà non ci piace davvero.

I cambiamenti nei processi e nelle organizzazioni generano resistenze, ansie e incertezze perché qualsiasi innovazione è percepita come una minaccia allo status quo o come un ulteriore carico di lavoro: se la prima minaccia è sempre vera, la seconda tendenzialmente no, semmai si tratterebbe di un carico emotivo o cognitivo, di cui dobbiamo comprendere e accogliere la fatica.
La maggior parte di noi esseri umani tende a preferire ciò che conosce e spesso vede il cambiamento come un rischio piuttosto che una opportunità. È un fatto biologico, evolutivo, e non possiamo farci nulla.

Qui di seguito si elencano 5 passi che favoriscono un impatto duraturo dei cambiamenti in azienda.

Fase 1 – Prima di portare a bordo le persone, facciamole scendere dalla barca su cui hanno navigato fino a quel momento e che li ha portati fin lì.

Quella barca potrebbe essere comoda come un’abitudine, maestosa come il glorioso passato, ma potrebbe chiamarsi “Titanic”.

Per superare questa resistenza e portare a bordo del progetto le persone, dobbiamo coinvolgere i colleghi sin dalle prime fasi del progetto comunicando loro non tanto i benefici del cambiamento, bensì la sua urgenza.

“Se non cambiamo, ci schiantiamo”, è l’essenza del messaggio declinato con tutta la delicatezza del caso per non trasformare l’attivazione focalizzata in distress.

Le persone dovranno capire bene prima “perché”, solo dopo “cosa” e “come”, anche perché – spesso – nelle fasi iniziali del progetto questi dettagli non sono neppure ben chiari.
L’inizio del progetto è il momento di definire il problema (i.e. problem setting), non di risolverlo. Bisogna spiegare queste accortezze allo sponsor perché sarà lui a comunicare il messaggio e dare il cosidetto “commitment”.
Non ci si deve focalizzare sulla soluzione ma sul perché.

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Fase 2 – Sicurezza psicologica: creare uno spazio sereno per le domande e i dubbi affinché le persone possano affrontare direttamente le loro paure.

Dopo avere comunicato l’urgenza del cambiamento, dobbiamo accogliere la paura.
Nel cambiamento noi esseri umani abbiamo paura di perdere quello che ci è più caro e le nostre piccole comodità.

Per questo motivo, quando mettiamo a punto il nuovo processo con interviste e chiacchiere al caffè è necessario indagare cosa hanno paura di perdere i nostri colleghi.
A volte toccheremo gli abissi dell’animo umano perché emergerà un mondo fatto di gelosie, invidie, accidia: senza stigmatizzare o biasimare questi sentimenti (né con il linguaggio verbale né con quello non verbale), rassicuriamo le persone che nel nuovo processo non perderanno la loro visibilità, il loro ruolo e non faranno più fatica.
Inoltre, questa è la fase in cui dobbiamo valorizzare il passato e mostrare gratitudine.

Attenzione a ripetere mantra ostinatamente ottimistici “Andrà tutto bene, si sistemerà tutto”: sono frasi che si possono dire solo dopo avere ascoltato profondamente le persone e i loro dubbi, altrimenti all’orecchio di quelle persone suoneranno come il “beato te, che non capisci nulla” o il tristemente famoso #enricostaisereno.

Nessuno di noi vuole essere trattato come uno stupido, tutti vogliamo essere ascoltati.

Fase 3 – Rispetto per il passato ma nessun alibi per non partire: il “Minimo Nuovo Processo Fattibile” va provato su campo!

“Abbiamo sempre fatto così” a volte è un alibi, a volte è un’emozione che si chiama ‘nostalgia’ per un mondo che non c’è più e vorremmo ritornasse perché in quel mondo eravamo più giovani e più belli.
È un meccanismo pavloviano, un automatismo ben radicato nelle nostra biologia e modellato dalla nostra esperienza.

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Come leader della trasformazione dobbiamo avere il coraggio di forzare la mano e partire col nuovo processo: dobbiamo mettere a terra quei 2-3 cambiamenti di processo per i quali abbiamo una discreta certezza sul miglioramento che porteranno. E poi dobbiamo partire con il nostro nuovo “Minimo Nuovo Processo Fattibile”.

Fase 4 – Non permettiamo che i bastian contrari sabotino la novità.

“Teniamo la barra dritta” sulle novità di processo per il tempo che ci serve a testarle e non permettiamo a nessuno di tornare alle vecchie modalità di lavoro perché questo invaliderebbe l’esperimento.
Poi grazie ai dati, e ai feedback delle persone, aggiusteremo il processo.

Per esempio: nel nuovo processo abbiamo introdotto una routine di lavoro gomito a gomito di mezza giornata tra persone di diverse funzioni? Non ci sono eccezioni che valgano, nessuno può saltare quell’impegno per il periodo di prova, altrimenti non potremo mai dire se ha funzionato o meno.
E se qualcuno lo salta per seguire altri progetti o altra operatività? Alla prima infrazione bisogna far valere la disciplina sperimentale e fare subito escalation sulla gerarchia: non per “rimproverare” qualcuno ma per far sì che il/la responsabile ribadisca il perché del progetto di innovazione e assicuri il suo sostegno nel dare massima priorità.

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Fase 5 – Garantiamo onestà intellettuale e gratitudine.

Al momento del go-live del nuovo processo abbiamo parlato di “discreta certezza”, non di certezza. Se l’esperimento ha fallito, significa solo che l’ipotesi di soluzione è da ribaltare o aggiustare, non che il cambiamento non sia più necessario. Forti di questa premessa, dobbiamo avere il coraggio di comunicare con onestà e trasparenza i risultati, quelli veri.
Solo nelle aziende di carta e nella cattiva politica tutti gli esperimenti fanno centro: e per ragioni di consenso di breve termine si raccontano mezze verità e si fanno grandi omissioni.

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Nella lean si chiama Hansei e a chi lo vede “da fuori” sembra una terapia di gruppo. L’importante è che si faccia: ci si mette attorno a un tavolo con le persone che hanno partecipato al minimo nuovo processo fattibile, si condividono i dati e poi ci si chiede cosa è accaduto e perché, e si ipotizzano nuove soluzioni da testare al prossimo esperimento.

Da soli faremo la fine di Don Chisciotte contro i mulini a vento!

Non pensiamo di poter fare questo lavoro da soli come project leader all’interno di aziende complesse, con anni di abitudini alle spalle e meccanismi di potere ben consolidati. Oltre all’impegno della direzione nel sostenere l’iniziativa, ci saranno molto utili degli agenti del cambiamento che lo promuovano, lo difendano e raccolgano le paure dei colleghi. Dovranno essere in primis coloro che partecipano al gruppo di lavoro, perché sanno “che cosa sta accadendo” e non si basano su pettegolezzi da corridoio.
Solo un gruppo di persone appartenenti a diverse funzioni può mettere mano a un processo interfunzionale come quello di innovazione, le cui criticità nascono spesso dall’approccio a silos di un’organizzazione “tradizionale”.
Gli agenti dovranno promuovere il cambiamento all’interno delle diverse funzioni, dovranno difendere i cambiamenti e spiegarli in una prospettiva aziendale o del cliente. Saranno i nostri “lobbisti” o – per usare una metafora meccanica – saranno la nostra catena di trasmissione del famoso “commitment dello sponsor” che – per quanto forte – se non è agganciato ad altri organi di movimento, rimane un albero motore che gira a vuoto.

Articolo a cura di:

Alessandro Valdina

Principal

Nel suo percorso di studi universitari ci sono Comunicazione, Finanza e Analisi del Comportamento Applicata. Le sue aree di intervento coprono Change Management, Strategy Deployment, Lean Office, Performance Management, Sviluppo della Leadership e Tecnologie di Training.

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