Lenovys Focus
19/12/2025
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Quando non c’è un cliente che paga, gli Yes Man proliferano

the office Dwitght Michael yesman

Nelle organizzazioni la fedeltà al capo soffoca il valore per il cliente.
Un’analisi su leadership, dissenso, Lean e responsabilità condivisa.

Quando il potere delegittima il valore

Un povero collega, un consulente formatore, cercava di illustrare a una manciata di dirigenti quale condotta tenere nei processi decisionali in tema di sicurezza sul lavoro per uscire indenni dai meandri della giurisprudenza italiana ed evitare infortuni.
A un certo punto entra in aula l’amministratore delegato anche lui “obbligato” alla formazione dalla scure dell’accordo Stato-Regioni e dopo 5’ di ascolto distratto si gira verso la sua prima linea dando le spalle al formatore dicendo: “Sia chiaro, io non sono d’accordo su nulla di ciò che sta dicendo questo signore”. E tutti giù a ridere compiaciuti.

Quanta solidarietà provai quel giorno per il collega, delegittimato in pubblica piazza da un arrogante uomo di potere!
Si trattava di un’azienda privatizzata da 20 anni ma ancora con forti dinamiche da carrozzone pubblico (che opera in un mercato non concorrenziale), dove l’unico cliente è quello interno perché quello vero, quello che paga, non ha alternative.

Ho lavorato per associazioni, aziende sanitarie, cooperative e società che non producevano beni o servizi in un mercato concorrenziale ma per solo per i suoi associati o per noi cittadini: organizzazioni con l’ambizione di applicare la lean ai propri processi.
La parte più difficile del lavoro era definire che cosa fosse “il valore” (definito alla lean maniera, “ciò per cui qualcuno mentre paga sorride”), perché le persone a un certo punto si rendevano conto che quello che facevano non era per rendere contento il cliente pagante ma per rispettare processi interni o, peggio, per “soddisfare il cliente interno”.
Un modo socialmente accettabile di dire “per fare contento Tizio”, ma soprattutto per “non fare arrabbiare Caio”.

Il veleno organizzativo: gli Yes Man

In quelle organizzazioni ho sempre fatto molta fatica a portare qualsiasi cambiamento perché in simili contesti non è importante dare valore al cliente pagante, bensì ottenere l’appoggio giusto, il consenso della persona di comando, al di là di ciò che dice chi fruisce i servizi o prodotti, pagati con le tasse o coi contributi associativi.
È in quelle organizzazioni che ho trovato un’incidenza maggiore di Yes Man (ma anche Yes Woman) e lacchè, creature selezionate dall’ambiente e sopravvissute a molte primavere: resistono ai cambi di vertice, prosperano nei momenti di incertezza, si mimetizzano dietro il consenso. Quando un capo ha un’opinione, la fanno propria. Quando cambia opinione, la cambiano anche loro. E se per caso la contraddizione è troppo evidente, si limitano a dire che “il contesto è cambiato” sfuggendo così alla loro dissonanza cognitiva.

Il risultato è che il valore dell’azienda smette di misurarsi in risultati, idee o competenze e comincia a misurarsi in fedeltà. Ma la fedeltà non è un fattore di successo o di innovazione per un’azienda vittima dell’attuale contesto di cambiamento continuo.
La fedeltà ci divide in clan; la lealtà a principi e valori, al contrario, ci unisce al di là delle appartenenze e sopravvive ai cambi di vertice.
Nel breve termine, però, quando i vertici si contendono il potere, la fedeltà può risultare – agli occhi dei seguaci – più utile della lealtà, perché protegge dall’incertezza: sapere da che parte stare è più rassicurante che sapere cosa è giusto fare.

Perché il dissenso migliora i risultati (il caso Gawande)

Un libro fondamentale nella mia formazione è stato The Checklist Manifesto di Atul Gawande: nel 2009 il chirurgo statunitense di origine indiana racconta in questo saggio gli esiti di un progetto commissionato dall’OMS che prevedeva lo studio e la sperimentazione di nuovi protocolli sanitari capaci di ridurre gli errori clinici – senza l’aiuto di tecnologia.
Gawande partiva da un’evidenza personale: anche i migliori professionisti, incluso lui stesso, di fronte alla complessità crescente dei sistemi moderni, commettono errori evitabili.
La sua intuizione fu tanto semplice quanto rivoluzionaria: introdurre una checklist condivisa prima di ogni intervento chirurgico, durante la quale ogni membro dell’équipe — dal chirurgo capo all’infermiere più giovane — doveva poter esprimere apertamente eventuali rischi, dubbi o punti critici legati all’operazione. Questo breve “giro di tavolo” rompeva la gerarchia implicita della sala operatoria, in cui spesso solo la voce del chirurgo conta e verso il quale c’è un certo timore reverenziale; anzi si apprezzava chiunque esprimesse la propria opinione, soprattutto se divergente.
I risultati, pubblicati sul New England Journal of Medicine, furono impressionanti: le complicazioni gravi si ridussero del 36% e la mortalità chirurgica quasi del 50%.

Quando si abbandona la cultura dell’infallibilità e si crea uno spazio sicuro per il dissenso aumenta la qualità del risultato.
Ciò che rattristiva Gawande è che questo protocollo “a costo zero” è rimasto patrimonio di una minoranza di ospedali, ma posso immaginare quanto il suo lavoro e le sue evidenze abbiano dato fastidio a certi baroni!

Inconsciamente sottomessi all’autorità

Quel giro di tavolo, impostato da Gawande, funziona perché è in grado di costruire una cultura in cui si mette in discussione il principio di autorità, a cui noi essere umani siamo “leggermente” sensibili… per usare un eufemismo.
Nel suo celebre Le armi della persuasione, Robert Cialdini dedica un intero capitolo al potere dell’autorità, mostrando quanto profondamente radicata sia in noi la tendenza ad obbedire a chi percepiamo come legittimato a comandare.
Uno degli esperimenti più emblematici citato nel libro fu condotto da Charles Hofling nel 1966 presso 22 ospedali statunitensi. In questo studio, un medico — in realtà un attore — telefonava all’infermiere di turno ordinando di somministrare a un paziente un farmaco inventato chiamato “Astroten”, a una dose doppia rispetto al limite massimo indicato sull’etichetta. L’infermiere non aveva mai visto né conosciuto il medico, e la procedura violava esplicitamente i protocolli ospedalieri. Eppure, 21 infermieri su 22 si prepararono a eseguire l’ordine senza porre obiezioni, fermati solo all’ultimo momento dai ricercatori.

La risposta Lean e Agile alla cultura della deferenza

I sistemi Lean e Agile sono nati per difendere le organizzazioni da questo tipo di degenerazioni e mettere al centro il cliente, quello che paga.
Nel modello Lean, la responsabilità è innanzitutto distribuita dal basso verso l’alto, e non viceversa: chi è più vicino al problema è autorizzato a risolverlo, anche se non ha il grado più alto. È un’architettura che scoraggia la deferenza “ai capi che decidono” e premia il pensiero critico.
Per quanto io non sia un antropologo culturale, credo che l’approccio Toyota sia stato, al tempo, dirompente anche in Giappone, dove manifestare il dissenso soprattutto verso la gerarchia è tutto, tranne che facile.

Nelle organizzazioni che riescono a introdurre la cultura del miglioramento continuo, durante una riunione, un tecnico può contraddire un manager se il dato lo smentisce, e non perde la faccia: la perde il manager, se ignora il dato.

È una cultura che ribalta il concetto stesso di “fedeltà”: non sei fedele al capo, ma al principio di miglioramento continuo.

Quando l’operaio alza la mano per dire che un pezzo non va bene, nessuno lo legge come una critica verso il team leader, ma è una segnalazione per evitare che un prodotto difettato vada nelle mani di un cliente, mettendo anche a rischio alla reputazione aziendale.
Il Kaizen, “miglioramento” in giapponese, si basa sull’idea che i dipendenti siano la risorsa migliore per identificare problemi e apportare cambiamenti.
In questo contesto, la possibilità per l’operaio di segnalare un problema non è vista come un atto di dissenso, ma come un contributo essenziale alla crescita aziendale.

Nel mondo Agile, la responsabilità è soprattutto condivisa, perché la squadra non lavora per compiacere un capo (anche perché un capo vero e proprio non ce l’ha) ma per generare valore misurabile per il cliente: è infatti tutta la squadra – non solo il leader – a presentare il proprio lavoro di fronte al cliente, con oneri e onori.
Il riscontro da parte del cliente è continuo e tutti i membri della squadra sono esposti ; il dissenso prima dell’incontro col cliente è visto come segnale di salute, non di ribellione.

Dove osano le aquile

Tacito, storico romano, sosteneva la necessità di un principe illuminato per evitare le possibili guerre civili nate nei tempi della repubblica, ma questo principato aveva anche bisogno di essere sfidato nelle sue opinioni, per il bene di Roma. Non poteva dirlo direttamente, e quindi lo trasmetteva attraverso le sue analisi storiche quando il senato aveva perso potere e si limitava a lisciare il pelo al dux.
Tacito concludeva che vivere sotto i tiranni era una condizione da governare con prudenza, evitando i due estremi: l’opposizione teatrale e la piaggeria servile; suggeriva una terza via: “la libertà interiore del giudizio, esercitata con misura e dignità”.

È forse l’unico consiglio possibile per chi lavora in un’organizzazione che premia la fedeltà più della lealtà e al contempo non vuole/può andarsene per n motivi o non ha la forza per trasformare la cultura aziendale introducendo princìpi Agili o Lean.

Per provare a cambiare le cose, non serve spettegolare contro il potere alla macchinetta del caffè. Serve restare lucidi, conservare un pensiero critico, e parlare con la pacatezza dei numeri, dimostrando interesse per il bene dell’azienda e del cliente.
Poi se il manager non avrà altre contro-evidenze e persisterà nella sua strada contro il bene del cliente o dell’azienda, la persona avrà un elemento in più per decidere se mandare in giro il proprio cv oppure – e qui osano solo le aquile! – avere il coraggio di parlare col suo capo del suo capo.

In contesti complessi, la qualità della leadership si misura dalla capacità di creare spazi sicuri per il dissenso, non dalla quantità di consenso ottenuto.

Articolo a cura di:

Alessandro Valdina

Principal

Nel suo percorso di studi universitari ci sono Comunicazione, Finanza e Analisi del Comportamento Applicata. Le sue aree di intervento coprono Riorganizzazioni, Change Management, Strategy Deployment, Lean Office, Performance Management, Sviluppo della Leadership e Tecnologie di Training. In Lenovys dal 2017, oltre che nella consulenza, è impegnato in formazione e speech in eventi aziendali. Dal 2025, scrive “Io so’ io e voi non siete…”, una newsletter e un podcast sul rapporto tra potere e organizzazione aziendale in Italia, con spunti Lean e Agile per migliorare.

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